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Heidegger e il nazismo 2.0 | Kasparhauser XII
A cura di Marco Baldino



Introduzione

18 novembre 2015


«Heidegger e il nazismo 2.0» rinvia, come dice il nome, ad una prima occasione di dibattito, che in effetti vi fu. L’occasione fu allora la pubblicazione, in Francia, del libro dello storico cileno Victor Farías, Heidegger et le nazisme (1987), tradotto in italiano nel 1988. [1] Ma discussioni ve n’erano già state in abbondanza, dal 1946, anno di pubblicazione della Lettera sull’umanismo, al 1983, anno della ristampa del Discorso di rettorato, vi furono almeno dieci occasioni di dibattito tra addetti ai lavori, tra le quali si potrebbero ricordare le seguenti due: la pubblicazione del libro di Adorno, Jargon der Eigentlichkeit (1964), e, morto Heidegger nel 1976, la subitanea apparizione della famosa intervista allo Spiegel, “Nur noch ein Gott kann uns helfen”. [2]

In Italia (come in Francia) — e c’è tutta una sequela di importanti motivazioni al riguardo — il dibattito che seguì alla traduzione del libro di Farías tracimò, e di molto, gli argini del piccolo recinto degli addetti e coinvolse un ampio pubblico. Si tradussero libri e articoli dei maggiori nomi della filosofia europea di quel momento, da Emmanuel Lévinas a Jacques Derrida, da Philippe Lacoue-Labarthe a Jean-François Lyotard, da Hans Georg Gadamer a Hans Jonas. [3] Il fatto esplose sulla stampa quotidiana in modo tale che, per la prima volta, e certo in modo del tutto straordinario, le pagine culturali, con richiami in prima, non mancavano di interventi di filosofi che facevano contesa sulle spoglie di un pensatore assurto a nuovo grande riferimento spirituale. I maîtres penseurs di quella fase non perdevano occasione per misurarsi sulla question o, per essere più precisi, per rivendicare, nonostante tutto, il diritto a un riferimento, a un profeta, a un nome che fosse anche un nume, un Padre.

Riporto qui le frasi finali di un articolo di Giorgio Agamben, apparso sul Manifesto del 12 maggio 1988, dove si legge: in Francia [con riferimento al libro di Farías, che Agamben giudica subito «tendenzioso»] «l’errore di breve durata di un filosofo tedesco […], ha funzionato come un discorso di copertura […] di fronte al fatto che […] due francesi su dieci sono apertamente razzisti»; mentre in Italia «la maggior parte di coloro che, negli ultimi anni, si sono richiamati ad Heidegger [i teorici del pensiero debole, non secondi ad Agamben nel rivendicare la nuova paternità], lo hanno fatto soltanto per trovarvi una cauzione per la pura e semplice abdicazione alle responsabilità della filosofia, quasi che il pensiero di Heidegger si riducesse ad alcune insipide tesi sul tramonto della metafisica», mentre «il problema dell’essere posto da Sein und Zeit» e il pensiero dell’Ereignis sono «il problema decisivo dell’esistenza e della libertà» e «la possibilità più concreta di un’umanità giunta al limite più rischioso della sua storia».

Il dibattitto si estese alle riviste specializzate, [4] ai corsi universitari, [5] alla pubblicazione di alcuni saggi (non molti) di autori italiani. [6] Ferry e Reanut, nel 1988, si chiedevano come è possibile che Heidegger sia divenuto, in Francia e Italia, il filosofo della sinistra. [7] Secondo Dal Lago (1989) la domanda era priva di senso perché Heidegger non era diventato il filosofo della sinistra, nel senso in cui lo fu Marx, ma era studiato anche da filosofi di sinistra. [8] Ma l’obiezione è fragile e facilmente scalzabile se non ci si limita ai “filosofi”, cioè a quei vincitori di concorso che siedono su cattedre universitarie. La domanda pare sensata se, per esempio, nell’orizzonte di quella che fu la sinistra culturale degli anni ’70, degli studenti, dei laureati o dei semplici franati nei loro percorsi di studio, ma rotti alla lettura filosofica, senza i quali le opere dei filosofi di professione sarebbero oggi invisibili scartafacci, ci si chiede chi o che cosa abbia preso il posto di Marx o, per essere precisi, chi o che cosa abbia preso il posto del racconto marxista dell’emancipazione dallo sfruttamento e dall’alienazione attraverso la socializzazione del lavoro, o anche chi, tra i molti nomi circolanti allora, meglio si prestava ad una totale ricapitolazione — chi, dopo il naufragio del racconto marxista, ha ‘oggettivamente’ saputo raccogliere le istanze anticapitaliste, anticonsumiste, ambientaliste e rimbaudiane del movimento giovanile degli anni ’70.

I ‘racconti’, introdotti nel dibattito filosofico da Lyotard, non sono propriamente ‘miti’, questo lo si è detto in lungo e in largo, anche se il loro scopo non differisce molto da quello di questi ultimi: legittimare istituzioni, pratiche sociali e politiche, legislazioni, etiche, modi di pensare. I racconti, a differenza dei miti, non cercano questa legittimazione in un atto originario, fondatore, quanto piuttosto in un futuro di cui si desidera l’avvento.

È qui che si inserisce Heidegger, cioè il racconto ontostorico dell’emancipazione (o salvezza) dalla macchinazione tecnica, dalla desertificazione nichilistica, attraverso un recupero del modo greco (originario, aurorale) di leggere, nelle parole dei poeti, lo schiudersi di un altro inizio [9] o, che è lo stesso, di una nuova possibilità di radicamento all’Essere — lottando, naturalmente, contro le potenze dello sradicamento nella loro nuova configurazione: il liberismo, il sionismo, la tecnica. Il racconto heideggeriano ha cioè recuperato quella parte delle istanze del movimento giovanile cólto degli anni ’70, che non si sono infrante contro il cristallo liquido del disincanto postmoderno, trasformando il paradigma rivoluzionario-libertario-comunista in un reticolo di temi e motivi, politicamente trasversali, che vanno dall’indignazione al luddismo, dal motivo del dono al modello della decrescita, dal mantra comunitario alla più radicale tensione de-economizzatrice della società, tutti riconducibili ad aspetti del pensiero heideggeriano: il dono dell’essere e l’essere come dono; la terra (e le terre di volta in volta determinate) come dimensione del provenire delle cose e la tecnica come sradicamento di tutti gli enti; l’affermazione di un modello in cui l’economico e il tecnologico assurgono a valori assoluti e la necessità di una distruzione [Destruktion] di quella forma di pensiero (la metafisica) di cui l’imposizione tecnica, il dominio economico e la volontà di potenza nichilistica sono le estreme manifestazioni. Ma soprattutto, va notato, entrambi i racconti manifestano il medesimo carattere messianico; in entrambi i casi il messianismo è il garante della loro presa. Nei Contributi alla filosofia — scrive Maurizio Ferraris — il grande libro incompiuto di Heidegger, in cui l’autore elabora quell’ontologia dell’evento che avrebbe dovuto chiudere la falla apertasi con Essere e tempo, si profila l’attesa di un ultimo dio, di un dio a venire, «destinato a salvare la terra dal nichilismo». [10]

Ci si potrebbe chiedere quali istituzioni, quali pratiche, quali etiche avrebbe legittimato il racconto heideggeriano, e la prima osservazione che viene in mente è che la sua particolarità, il suo genio, supera di gran lunga il genio del racconto marxista, perché il racconto heideggeriano ha saputo comporre il fondamento originario, con tutto il fascino oscuro del mito, e l’apertura al futuro con tutto il carico di aspettative che il desiderio conferisce alle cose a venire. E tuttavia, di questo racconto si avvantaggiano anzitutto le facoltà di Filosofia — ed è una cosa tutt’altro che banale o corriva. Sebbene Heidegger non sia l’unico pensatore studiato, ed anzi cominci ad annoverare parecchi nemici anche nell’università italiana, è di gran lunga uno dei più studiati, ancora. Questo rapporto con la carriera universitaria è, come dicevo, tutt’altro che banale perché si riallaccia a un motivo civilitario, quello del controllo della Paideia. L’attività accademica produce vocabolari che, resi disponibili dall’editoria, vengono raccolti da pratiche come quella dell’indignazione. Il districarsi di tali pratiche, rafforza l’azione accademica, attrae nuove energie intellettuali e crea un circolo virtuoso tra la formazione e l’indignazione, tre il riprodursi di carriere universitarie, la formazione di quadri di insegnanti medi, la creazione di giovani amministratori, tecnici e operatori sociali che utilizzano lo stesso vocabolario, gli stessi strumenti concettuali e perseguono gli stessi obiettivi.

Ciò di cui l’attuale dibattito sui Quaderni neri è sintomo ancora oscuro, è proprio questo, la crisi della narrazione heideggeriana, la presa di coscienza del fatto che non solo l’emancipazione dal nichilismo per via estetico-ermeneutica non avrà luogo, che è una favola, come lo fu la rivoluzione sociale negli anni ’70; ma soprattutto del fatto che questa fabel si sta rivelando fondata su qualcosa di assai torbido. Le grandi resistenze opposte alle rivelazioni degli Schwarze Hefte, la tela di specialismo che viene stesa sopra lo smottamento dei fondamenti del racconto heideggeriano: davvero Heidegger fu antisemita? Come se nel caso di Heidegger pensiero e vita dovessero tenersi separati, come se questa separazione non contrastasse con specifiche dichiarazioni del filosofo e, trascurando la linea stessa dello sviluppo del suo pensiero, non introducesse, negli studi accademici, un tono elusivo, capace di glissare sull’“antisemitismo ontostorico di Heidegger”, ovvero sul fatto che “antisemitismo” è una categoria del pensiero di Heidegger, e non una uno scivolone nella vita di Heidegger. [11] Di che tipo di antisemitismo si tratta? Strana domanda, che lascia intendere la possibilità di un antisemitismo diverso, meno grave o più scusabile di quello professato dai nazisti, forse addirittura “giusto”. La questione ebraica è davvero il cuore degli Schwarze Hefte? Qui abbiamo invece un terribile auto-smascheramento, perché insieme si ammette l’esistenza di una “questione ebraica” in Heidegger mentre si espone, non volendo, il desiderio di celarne il senso proprio, ossia il fatto che la “questione ebraica” ha invariabilmente, in Heidegger, un unico senso, quello avversativo. Che tipo di responsabilità si possono ascrivere alla filosofia di Heidegger davanti all’Olocausto? Altra terribile domanda, perché il tentativo di liberare il pensiero di Heidegger da una responsabilità più grande, finisce con l’ammettere implicitamente l’esistenza di una “questione antisemitismo”, che si vorrebbe così derubricare, magari introducendo una separazione — come si diceva — tra vita e opera, come se Heidegger fosse uno di quei tanti scienziati da lui tanto odiati, per i quali tra vita e opera non esiste alcuna “simbiosi ritmica”. Tutto ciò, tutta questa resistenza, tutto questo ‘specialismo’ con cui si vuole fronteggiare il naufragio dell’heideggerismo, rivela, molto più di quanto non riesca a nasconderlo, che la struttura filosofica del paradigma heideggeriano è in realtà un antisemitismo negazionista.

Tom Rockmore per esempio sostiene che queste strategie prendono una forma per cui gli iniziati ritengono che coloro che non sono «capaci di citare i manoscritti nota per nota e riga per riga» e che non sono «in grado di produrre materiale inedito per sostenere un argomento» non sono in grado di capire Heidegger. [12] Queste argomentazioni sono tipiche di un culto settario. «Gli heideggeriani tendono ad appoggiarsi alle difficoltà del pensiero di Heidegger per fare della sua interpretazione un processo quasi mistico, ieratico. Il risultato, a imitazione della stessa strategia di Heidegger, è di mettere il pensiero di Heidegger al riparo da ogni tentativo di critica». [13] «Il fatto ovvio che gli esperti di Heidegger abbiano un interesse professionale nell’importanza, anche nella stessa correttezza, delle sue posizioni spiega la riluttanza a metterle in dubbio sia pure in maniera minima». [14] «Una forma particolarmente intransigente di questa tattica consiste nel negare che gli outsider capiscano o possano capire le posizioni di Heidegger. Per esempio l’affermazione di De Waehlens per cui Löwith, prima allievo e poi collega di Heidegger, non era abbastanza ferrato nel pensiero del maestro per criticarlo. Oppure l’affermazione di Derrida per cui Farías, che ha speso una dozzina di anni a scrivere un libro sul nazismo di Heidegger, non avrebbe speso un’ora a studiarne il pensiero. Una forma più generale di questa tattica, di fronte a qualunque cosa venga detta sul pensiero del maestro che lo caratterizzi come metafisica, è trattarla sulla base della teoria per cui Heidegger ne fosse in qualche modo oltre. Questo equivale a dire [...] che c’è un errore di categoria in quanto un’affermazione metafisica non si può applicare alla visione di Heidegger. La tendenza è quella di limitare la discussione heideggeriana ai lavori degli studiosi di Heidegger per preservare la visione di Heidegger da occhi indiscreti, rendendola invisibile a chiunque se non ai credenti ortodossi». [15]

L’idea antisemita — di origine ottocentesca — di un controllo planetario intentato dall’internazionale giudaica [16] (ripresa da Heidegger nei Quaderni neri), si scopre essere appena dissimulata nel “racconto” secondo cui l’Ebraismo mondiale, attraverso Israele, controllerebbe pace e guerra manipolando i rapporti conflittuali nell’omphalos mediorientale. Composta, questa idea, con l’altra secondo cui Israele, attraverso la disposizione al calcolo dell’ebreo della diaspora controllerebbe i media e la finanza mondiale, vediamo chiaramente emergere l’immagine di una grande macchina filosofica di giustificazione preventiva della sterminazione dell’ebreo.

È questo il motivo per cui il “caso Heidegger” ossessiona, mentre altri filosofi, dichiaratisi apertamente antisemiti o nazisti, non fanno problema, perché Heidegger è più che un semplice esponente del nazionalsocialismo degli anni Trenta del XX secolo, è un grande racconto messianico di liberazione dalla ‘macchinazione’ (questa volta detto nel senso di ‘complotto’, ‘insidia’, che la lingua tedesca pure supporta) liberista-pluto-tecno-mondialista del nichilismo. Il “racconto heideggeriano” esibisce un valore di universalità legittimante? Bene, dentro questa legittimazione, si scopre un fondo fraudolento, vertiginosamente devastante.

Il problema non è allora come collocare Heidegger nella storia della filosofia dopo la pubblicazione dei Quaderni neri (Heidegger e il nazismo 1.0) — in fondo un professore rimane sempre e solo un professore. Il problema, conclusivamente, è come valutare la nostra presente visione delle cose dopo il disincanto prodotto dalla scoperta che la liberazione dal nichilismo, è lo stesso che la sterminazione dell’ebreo nella sua identità vittimaria (sono come i nazisti), resistiva (illegittimità dello stato ebraico), diasporica (la finanza, i media, le banche), nel nome di un “altro inizio”: Heidegger e il nazismo 2.0. Ricondurre Heidegger al ruralismo della cultura Blut und Boden, rintracciarne l’antisemitismo fin nei meandri di Essere e tempo, estraniarlo da se stesso dislocandolo sul terreno dell’autocomprensione dell’essere-ebreo, metterne a nudo i tic e le derive, l’esaltazione mistico-messianica, la fabulazione mitopoietica… sono tutti passi di seconda generazione, che aprono questioni del tutto nuove. Il problema a cui qui si allude non è certo di verificare quanto peso abbiano, nei Quaderni neri, le questioni politiche legate al nazionalsocialismo e all’antisemitismo a fronte delle questioni teoretiche, le riflessioni sulla tecnica, la macchinazione, la modernità, il linguaggio, la poesia. Il problema, semmai, è che l’antisemitismo di Heidegger, che si esalta nella sua espressione politica, alligna proprio nelle questioni teoretiche, nelle riflessioni sulla tecnica, sulla macchinazione, sulla modernità, persino sulla poesia e che perciò ha ben altro peso da quello che vorrebbero attribuirgli coloro i quali, per arginare la frustrazione prodotta dal naufragio del racconto heideggeriano, vorrebbero tenere separati i due piani, teoresi e politica, che sono invece, in Heidegger, strettamente intrecciati (non si tratta solo di una valutazione possibile, ma dell’interpretazione che lo stesso Heidegger dà del proprio pensiero).

Ma non solo. Il problema — in questa monografia ancora dislocato sulla cornice — è che l’antisemitismo è oggi migrato ben oltre l’orizzonte dei nostalgici e trova nella prestigiosa complessità della teoresi heideggeriana un fondamento. Questo, a parer mio, è il nucleo della questione: se la riflessione di Heidegger sulla tecnica, sulla macchinazione, sulla modernità, persino sulla poesia è intrinsecamente intrecciata all’antisemitismo, quale ruolo svolge l’antisemitismo nelle riflessioni di oggi sull’economia, sulla tecnologia, sull’educazione, sulla politica e sulla geopolitica che si appoggiano al racconto heideggeriano?
mb


[1] V. Farías, Heidegger e il nazismo, trad. it. di M. Marchetti, P. Amari, Bollati Boringhieri, Torino 1988.

[2] Per una ricostruzione completa vedi E. Kettering, “Heidegger e la politica”, in AA.VV., Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, trad. it. di C. Tatasciore, Guida, Napoli 1992.

[3] Tra il 1987 e 1991 esce in Italia una ricca messe di opere: M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare. Intervista con lo Spiegel (Guanda, 1987); il citato volume di V. Farías (vedi nota 1); Karl Löwith, La mia vita in Germania. Prima e dopo il 1933 (Il Saggiatore, 1988); J. Derrida, Dello spirito. Heidegger e la questione (Feltrinelli, 1989); J.-F. Lyotard, Heidegger e gli ebrei (Feltrinelli, 1989); H. Ott, Martin Heidegger: sentieri biografici, (SugarCo, 1990); Ph. Lacoue-Labarthe, La finzione del politico. Heidegger, l’arte e la politica (Il Melangolo, 1991).

[4] Aut Aut si è occupata a lungo di Heidegger, sotto diversi aspetti, e, nel biennio 1987-88, dedicò diversi interventi alla questione del politico in Heidegger. Nel 1988 dedicò un intero numero al tema della responsabilità del filosofo, curato da Alessandro Dal Lago, con contributi di Carchia, Derrida, Gadamer, Galimberti, Giorello, Givone, Jabès, Marquard, Moravia, Natoli, Perniola, Prete, Quinzio, Rella, Rorty, Sini, Vattimo, Vegetti e Veyne, recensioni e materiali vari. Anche Alfabeta se ne occupò tra l ’87 e l ’88, con scritti di Hannah Arendt, Martin Heidegger, Victor Farías, Maurizio Ferraris, Emmanuel Lévinas, Thijs Berman, Alessandro Dal Lago, Umberto Galimberti, Alfredo Marini e Pier Aldo Rovatti.

[5] Ricordiamo qui, per averlo seguito, il corso di Alfredo Marini all’Università statale di Milano, A.A. 1987/88: «I filosofi tedeschi e la “crisi”. Crisi d’esistenza e crisi dell’università in M. Heidegger. Il discorso di rettorato. Rektoratsrede, 1933».

[6] A. Marini, “La politica di Heidegger”, in M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare. Intervista con lo Spiegel, cit.; A. Dal Lago, “Il filosofo e la politica. Heidegger e noi”, contenuto nel volume a due mani, Elogio del pudore. Per un pensiero debole, di P.A. Rovatti e A. Dal Lago (Feltrinelli, 1989); la prefazione di C. Sini al volume di H. Ott, Martin Heidegger: sentieri biografici, cit.

[7] In verità Ferry e Reanut (Heidegger et les Modernes, Grasset, 1988), si riferiscono alla sola Francia: «par quels étrangers détours la pansée de Heidegger a pu devenir […] dans la France contemporaine le pricipal “philosophe de gouche”» (p. 31). L’estensione all’Italia, per quanto corrispondente al vero, è un’interpolazione di Dal Lago, che li cita in “La politica del filosofo. Heidegger e noi”, in P.A. Rovatti, A. Dal Lago, Elogio del pudore. Per un pensiero debole, cit.

[8] A. Dal Lago, “La politica del filosofo. Heidegger e noi”, cit., p.66, nota 9.

[9] La questione dell’‘inizio’, Anfang, altro o nuovo inizio, non è una fola della Discorso di rettorato [Rektoratsrede], ma un costante richiamo che attraversa l’intero corpo dei Beiträge [Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), GA 65, Klostermann, Frankfurt a.M. 1989] e lo stesso Rektoratsrede è una delle opere a cui Heidegger si richiama continuamente nei Beiträge.

[10] M. Ferraris, Spettri di Nietzsche, Guanda, Parma 2014, p. 71. Per una disamina del concetto dell’ultimo dio nei Contributi alla filosofia, vedi E. Forcellino, “L’ethos dell’altro inizio: appunti sulla figura dell’ultimo Dio nei Contributi alla filosofia (dell’evento), di Heidegger”, Etica & Politica, XI 2009, 1, pp. 69-91, http://www2.units.it/etica/2009_1/FORCELLINO.pdf

[11] Cfr. P. Trawny, Heidegger e il mito della cospirazione ebraica, trad. it. di Chiara Caradonna, Bompiani, Milano 2015, p. 67 sgg.

[12] T. Rockmore, On Heidegger’s Nazism and philosophy, University of California Press, Berkeley (CA) 1997, p. 5.

[13] Ivi, p. 22.

[14] Ibidem.

[15] Ivi, pp. 23-24.

[16] Nota è la storia dei falsi Protocolli degli Anziani di Sion, da Maurice Joly a Sergej Aleksandrovič Nilus. Il testo illustra i sistemi adottati dall’internazionale ebraica per ottenere il controllo planetario e per convincere con i goyim (i non-israeliti) a piegarsi alla loro volontà: diffusione di idee liberali, sovvertimento della morale, promozione della libertà di stampa, contestazione dell’autorità tradizionale, dei valori cristiani e patriottici, controllo dei media e della finanza.




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